COSI VICINO AL CIELO
IL TIBET
Una mostra di Jacques Borgetto
Curatela di Laura Serani Un libro alle edizioni Filigranes
Inaugurazione il 5 aprile dalle 18 alle 21
Del Tibet, Jacques Borgetto racconta la sernità, il quotidiano e la spiritualità, le tradizioni persistenti e la modernità che si avvicina. L'immensità del cielo richiama la questione del territorio negato. Denso e contrastato, il bianco e nero si alterna al colore per un viaggio unico in questa terra cosi vicina al cielo.
Dal 6 aprile al 3 giugno Mercoledi - venerdi 15.30 - 19.30 Sabato 11.30 - 19.30
10b Photography Via S. Lorenzo da Brindisi, 10b 00154 roma
jacques.borgetto@wanadoo.fr info@10bphotography.com +39 06 703 069 13
II Tibet, così vicino al cielo e così lontano...
Il viaggio è spesso all'origine del lavoro fotografico di Jacques Borgetto, fotografo e viaggiatore «di lungo corso», il cui modo di procedere è simile a quello degli esploratori. Inizialmente spinto dal desiderio di ripercorrere il viaggio dei suoi prozii italiani emigrati in America Latina, Borgetto non ha, poi, mai smesso di partire alla scoperta di regioni di cui ha cercato, nel corso degli anni, di documentare l'evoluzione.
Questo, in Argentina, Cile, Giappone, Tibet, Corea, Africa, Asia ecc... andando oltre al viaggio interiore per concentrarsi sugli altri, di cui cerca di comprendere e integrare la cultura.
Con il suo lavoro che si costruisce paese per paese, Jacques Borgetto crea il suo Atlante.
Pur affidandosi ai generi classici del ritratto e del paesaggio, l'artista volge uno sguardo nuovo su contrade e civiltà poco conosciute, riuscendo a offrirne una visione intima. Le immagini, frutto dei suoi incontri, esaltano i luoghi visitati, i loro paesaggi, il loro patrimonio e la loro cultura, senza voler nascondere le tensioni del contesto economico e politico.
Così in Tibet, di cui Borgetto mostra la serenità, il quotidiano e la spiritualita, le tradizioni persistenti e la modernità che si avvicina, ma dove l'immensità del cielo, cosi presente nelle sue immagini, richiama la questione del territorio negato, come una forma di resistenza celeste.
Sulla scia di Georges Bataille, che nel 1947 parlava del «mistero del Tibet», e come spesso accade per noi occidentali, il Tibet ha sempre rappresentato un grande mistero ed esercitato una grande attrazione per Borgetto, sentimenti alimentati dalle sue numerose letture.
Di questi colori, quelli delle bandiere di preghiera o dell'arancione delle tuniche dei monaci, ci sono poche tracce nel Tibet di Borgetto, che il più delle volte sceglie di lavorare in bianco e nero, per immagini dalla materia viva, scure e contrastate, misteriose e al tempo stesso dense di informazioni. Recentemente il colore è stato inserito, soprattutto nei paesaggi fotografati in primavera, come a sottolineare la morbidezza dei prati, delle colline, la luminosità del cielo e l'armonia delle architetture. Il suo bianco e nero sembra esprimere la forte spiritualità del Tibet e, allo stesso tempo, la nostalgia per un mondo che rischia, almeno in apparenza, di svanire lentamente sotto le costrizioni.
Ma sembra anche tradurre la forza del pensiero buddista, pensiero reso realtà, identificato e identificabile in un paese che, pur essendo ostaggio della Cina, pare resistere da solo alla violenza, alla turbolenza e alla globalizzazione che governano il resto del mondo.
Laura Serani, curatrice della mostra
Laura Serani è curatrice e autrice. Direttrice del Festival di Deauville, Planches Contact, dal 2019, precedentemente L.S. é stata direttrice dei Rencontres di Bamako, la Biennale africaine de la Photographie in Mali, delegata artistica del Mois de la Photo à Paris, curatrice per Fotografia Europea - Reggio Emilia (dal 2007 al 2015) e direttrice del SiFest (nel 2007 e 2008). Nel 2016 ha lanciato Omnibus Circus, galleria e scena aperta effimera e nomade. Dal 1985 al 2006, Laura Serani ha costituito e diretto la Collection Fnac e la rete delle Galeries photo de la Fnac, in Europa, in Brasile e a Taiwan. Autore di numerose pubblicazioni e curatrice di innumerevole mostre, L.S. vive a Parigi, dove insegna all'Ecole nationale supérieure Louis Lumière.
Dal 2007 ho viaggiato in Tibet molte volte e in tutte le stagioni. Ad ogni viaggio, ho notato molti cambiamenti nel territorio: le strade, autostrade spezzettano sempre di più il paesaggio degli altipiani. Spesso ho pensato che questi cambiamenti sarebbero serviti ai Tibetani. Non è così: non ci sono infrastrutture per collegare le piccole città e gli accampamenti dove vivono.
La colonizzazione cinese è diventata sempre più evidente nella città santa di Lhasa. Questa politica è accompagnata dalla distruzione dell'habitat tibetano, rimpiazzato dalla costruzione di edifici per i cinesi.
Questa politica volontaristica tende anche alla sedentarizzazione dei nomadi degli altipiani che ha come corollario la costruzione di nuove città.
Durante le celebrazioni del Capodanno, i turisti cinesi invadono i grandi monasteri, come Labrang.
Appollaiati come possono e senza alcun ritegno, fanno fotografie delle cerimonie religiose ancestrali senza capirne il significato simbolico. Questa pratica ha portato il Dalai Lama a dire che il Tibet sarebbe presto diventato uno «zoo per turisti».
Per trovare la serenità, bisogna scalare le montagne, andare sempre più in alto, dove la vita è dura e la natura ostile, in quei piccoli monasteri che a volte sono accessibili, anche se sorvegliati dalla polizia. Sui grandi altipiani, i nomadi, nella loro fraterna generosità, vi accolgono sempre con un bicchiere di tè al burro salato. Vi offrono ospitalità e la loro incommensurabile gentilezza.
Nel corso di questi viaggi, ho notato anche l'inevitabile cambiamento dell'abbigliamento. Gli abiti tradizionali sono sostituiti o combinati con prodotti cinesi. Il mix di maglietta cinese e cappotto di pelo di Yak è ormai comune. A volte si possono vedere alcuni nomadi con i loro abiti tradizionali: le donne indossano i loro grembiuli colorati dalle fantasie che variano a seconda della regione.
II Tibet è sempre stato per me un grande mistero e continua a esercitare una profonda attrazione. Le letture di Alexandra David-Néel, e di molti altri, mi hanno fatto intravedere la ricchezza e l'unicità di questa civiltà. I miei viaggi mi hanno dato l'opportunità di vivere un'intensa avventura spirituale e di condividere la vita di un popolo eccezionale e affascinante, la cui identità è oggi minacciata.
Jacques Borgetto
Jacques Borgetto, la cui famiglia è originaria di un paesino del Piemonte, è nato a Parigi.
Fin da giovanissimo, si appassiona alla fotografia, che lo accompagnerà in ogni suo viaggio. Questo « Baudelaire dell'immagine», come lo definisce il giornalista Alain Mingam, attraversa il mondo e la sua epoca, dall'Europa al Sud America, dall'Africa all'Asia, per incontrare i suoi simili.
Dal 1975, il suo lavoro è regolarmente esposto in Francia e all'estero. Nel 2012 è stato vincitore del Vienna International Photo Awards (VIPA) e nel corso della sua carriera ha ottenuto diverse residenze d'artista. Le sue opere sono presenti nelle collezioni permanenti della Maison Européenne de la Photographie, della Bibliothèque nationale de France, del Museo del Tessé di Le Mans, del Museo dell'Isola di Halsnoy in Norvegia, del Museo della fotografia di Nizza ecc., e in numerose collezioni private.
La stampa specializzata gli ha dedicato diverse pubblicazioni, l'ultima delle quali in occasione di Paris Photos 2023 con la rivista de l'air « Jacques Borgetto, Viaggiatore Celeste ».
È anche autore di sei libri di fotografia: L'homme et l'olivier (L'uomo d l'olivo, Editions du Nol, 1984), Nous avons fait un très beau voyage (Abbiamo fatto un bellissimo viaggio, Editions Filigranes, 2010), L'autre versant du monde (L'altro lato del mondo, Editions Filigranes, 2010), Terres foulées (Terra calpestata, Editions Filigranes, 2011), Buenos Aires (Editions be-poles, 2013) e Evanescence (Editions Filigranes, 2016).
Jacques Borgetto vive e lavora a Parigi.
www.jacquesborgetto.fr